Cos’è il Wabi-Sabi e perchè è così fondamentale per i giapponesi? Accettare il ciclo naturale di crescita e decadimento della realtà. Coglierne il senso, la bellezza. Vivere la vita così com’è, senza volerne cambiare i colori, e tuttavia assolvere al proprio senso della vita al meglio delle potenzialità. La sensibilità e la psicologia giapponese potrebbero essere ricondotte a queste due sole, inafferrabili parole.
Wabi-Sabi 侘寂 L’esperienza più ineffabile nel disegno dell’Imperfezione
Autore Ospite: Flavia
Nel mondo è spesso associato al design, ma Wabi-Sabi è molto di più. Le sue origini sono legate a quelle della Cerimonia del Tè, dunque, la matrice ancora una volta è Zen.
Esso è in verità un’esperienza, tradottasi in una visione del mondo nonché in una raffinata sensibilità estetica, che si manifesterebbe quando la forma più alta di qualcosa viene raggiunta. Un mix di emozioni e sentimenti emergenti da uno stato – un istante – di consapevolezza che consente di cogliere la vera natura di luci e ombre della vita. Perciò quando d’ora in avanti si parlerà di bellezza, essa sarà da intendersi in senso lato, non soltanto come bellezza estetica in senso stretto. Anche perché, si tratta di una coscienza estetica che ingloba l’aspetto esteriore, ma lo trascende anche.
Va immediatamente detto che, poiché è un concetto metafisico quello che ci troviamo tra le mani, ogni tentativo di inquadrarlo a parole una volta per tutte risulterà sempre rischioso. Perciò, il modo migliore per poterlo conoscere rimane quello di sperimentarlo direttamente. Gli stessi padri del Wabi-Sabi – comprendendo da subito che un approccio di tipo cognitivo non sarebbe stato quello più adeguato – si servivano di immagini o allegorie per cercare di renderne l’idea. Anche i giapponesi moderni, se interrogati sulla definizione, tendenzialmente non si lanciano di getto in trasposizioni verbali senza prima un minimo attimo di dubbio. Oppure, ognuno, ne dà una spiegazione diversa a seconda della propria sensibilità.
È con questa consapevolezza quindi, che oggi ci proponiamo di esplorare insieme a voi questo concetto tanto misterioso quanto ineffabile.
photo credits: reddit.com
Imperfezione, Impermanenza e Incompletezza
È il trinomio per eccellenza al quale l’estetica Wabi-Sabi viene irrimediabilmente condotta e sintetizzata. Esso si riferisce alla visione Buddista della vita, per cui la bellezza delle cose non risiede nell’assenza di difetti o nell’eternità – che non è di questo mondo – ma proprio nelle loro caratteristiche intrinseche imperfette ed effimere.
Tuttavia parrebbe esserci qualcosa in più in ciò che il Wabi-Sabi sembra rivelare: Imperfezione, Impermanenza e Incompletezza sarebbero un punto di partenza più che un punto d’arrivo. Sarebbero la base da tenere presente, nella nostra co-creazione con la realtà, piuttosto che la vetta della montagna da raggiungere. In altre parole, suggerirebbe di riconoscere la realtà così com’è, di essere realisti: non ostinarsi a volerla forzare a essere qualcosa che non può essere, ossia perfetta. Ma al contempo suggerirebbe – ed ecco il bello – fare tutto il necessario per portare a termine il proprio compito o ruolo, data questa base di imperfezione, nel miglior modo possibile. Analogamente a quanto accade nel Chadō, ma su questo, avremo modo di tornare più tardi.
Personalmente, trovo poi che Impermanenza e Incompletezza siano anche «sottoinsiemi» del concetto madre di Imperfezione. Cosa denotano altrimenti l’impermanenza e l’incompletezza di qualcosa se non la sua imperfezione? Discorso analogo per i concetti di difetto e bellezza. Sono diversi ma sono anche la stessa cosa: il «brutto» può essere riconducibile alla dimensione del difetto, ergo dell’imperfezione (cosa che lo rende bello). Credo che tenere a mente questo aiuti ad approcciare il discorso Bellezza a 360°. Giacché Wabi-Sabi potrebbe riferirsi tanto a un’opera d’arte quanto a una situazione o, ancora, una piantina.
Ora però, è venuto il momento di fare finalmente la conoscenza dei termini Wabi e Sabi.
Wabi (侘) – Bellezza e quiete nell’essenzialità
Indica il gusto per la semplicità e la tranquillità. Dal punto di vista linguistico il Kanji – ideogramma –「侘」è composto dal radicale 「⺅」di persona + 「宅」di casa. Quasi a voler visivamente indicare una persona che, sola, si appoggia alla sua casetta. Uso il verbo «appoggiarsi» perché quell’omino così posto all’interno di un Kanji può venir spiegato come se la personcina si stesse appoggiando a ciò che è di fianco rappresentato. Beh, come vedremo a breve, il significato originario di Wabi 侘 era di solitudine.
La bellezza promossa da Wabi è discreta in virtù della presenza di imperfezioni generatesi in modo naturale, spontaneo (mai intenzionale!). I difetti naturali sono il valore essenziale dell’oggetto, della persona o della situazione. Li rende perfetti…e di conseguenza, belli. Una bellezza rustica o comunque non ostentata che predilige il naturale anziché l’artificioso.
I difetti naturali trovano spazio laddove la funzionalità – e non la forma fine a sé stessa – sia il criterio principale di vita. In altre parole, nella semplicità. Al contrario, nella sontuosità o nella complicatezza i difetti vengono immancabilmente soppressi: la bellezza diventa così fine a sé stessa. La complicatezza esasperata poi, tende ad accumulare concetti, pensieri, forme ecc. appesantendo con complessi grovigli ciò che magari potrebbe essere essenziale e quindi anche più funzionale. Per queste ragione, Wabi sembra più orientato verso Incompletezza e Imperfezione.
photo credits: youtube.com
Sabi (寂) – Bellezza e quiete nell’avanzare del tempo
Il Kanji Sabi「寂」è dato dall’unione del radicale di tetto「宀」con il kanji「叔」che può voler dire zio oppure uomo anziano o maturo. L’immagine suggerita è dunque quella di una persona nella tappa finale della sua vita sotto un tetto. Passando al vaglio i vari significati, il concetto in sottofondo rimanda in ogni caso a un’idea di declino o deterioramento. Il significato di Sabi寂 è ancora oggi quello di solitudine, desolazione, pacatezza, maturità (pensate che l’aggettivo 寂しい «Sabishii» significa essere o sentirsi soli). E, sebbene si scrivano con Kanji diverso, la radice delle parole giapponesi di «ruggine», «arrugginirsi» o «deteriorarsi» si pronuncia guarda caso «Sabi».
Ebbene, la bellezza promossa dal Sabi ha a che fare proprio col passare del tempo. Essa valorizza le qualità intrinseche delle cose e delle persone originatesi in seguito all’effetto del tempo su di loro (deterioramento/invecchiamento ma anche esperienze). Perché è solo grazie al tempo che tali qualità sono potute emergere in quel modo particolare.
Vi è poi un messaggio nel “danno da usura” che se saputo cogliere, soprattutto per tempo, è di enorme valore: quello di ricordarci che nulla, dagli oggetti alle situazioni, è per sempre. E che pertanto occorre non “cincischiare” e cogliere quell’istante prezioso in cui possiamo apprezzarle poiché sono ancora qui con noi: adesso.
È per questo che Sabi sembra invece più orientato sull’Impermanenza e l’Imperfezione.
Wabi-Sabi, esempio di sé stesso
Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui tale consapevolezza non c’era ancora. Originariamente infatti gli stati d’animo associati al Wabi e al Sabi erano piuttosto bassi:
- Wabi, come anticipato, indicava un senso di solitudine; uno starsene per conto proprio associato alla natura, in stile isolamento eremitico.
- Sabi, dal canto suo, denotava un senso di freddezza o aridità, povertà, restrizione, decadimento.
Avevano in comune questa dimensione di solitudine e desolazione… e il senso di malinconia per il non poter godere della compagnia dei propri simili.
Insomma, delle note proprio basse.
Di solito però è proprio dalle note più basse che le (ri)nascite migliori hanno luogo. Ed è quello che è accaduto. Con l’avvento del Buddismo Zen la coscienza generale subisce difatti una metamorfosi e così intorno al XIV secolo la connotazione dei due concetti si capovolge.
- Wabi: l’isolamento in natura è ora visto in tutto il suo valore e la «semplicità rustica» rivalutata. Prende così forma il piacere per la vita tranquilla e semplice.
- Sabi: si evolve nella bellezza dell’Impermanenza ossia il valore aggiunto e la serenità che cose e persone conseguono con l’usura e l’invecchiamento.
L’amarezza è ora addolcita dal miscelarsi ad essa di un senso di quiete. La malinconia – data da una condizione esistenziale sentita come miserabile – muta così in un sentimento dolce-amaro che alcuni hanno provato a definire «serena malinconia» o «bellezza triste». Per certi versi potrebbe, a tratti, ricordare il Saudade portoghese/brasiliano (anch’esso di difficile trasposizione verbale). Quello che però richiama con più forza è l’antecedente Mono no aware (物の哀れ), altro concetto cardine dell’estetica giapponese.
Ricapitolando: ai loro albori Wabi e Sabi non rappresentano altro che il loro lato ombra. Una versione oscura di loro stessi che «esorcizzata» dallo Zen, nasce a nuova vita. Abbandonando per sempre l’oscurità in cui erano nati, illuminandosi in quelle caratteristiche prima corrose dal buio.
Il divino, essenza della natura
Il senso di austera e quieta bellezza che Wabi e Sabi insieme trasmettono non potevano che avere origine nell’isolamento spirituale del Buddismo Zen. Solo in uno stato di quiete mentale e dunque spirituale è possibile osservare gioia e tristezza alternarsi esattamente come i cicli di natura e stagioni. Gioia per ciò che è stato o ciò che sarà, tristezza per ciò che ha fatto il suo tempo o per ciò che deve venire.
L’unica cosa che permane sempre uguale a sé stessa è la quiete. Una quiete data forse proprio da questa certezza sulla natura ciclica delle cose. Il loro volgere al termine può generarci un po’ di malinconia, ma allo stesso tempo ci infonde fiducia, poiché sappiamo che verrà il tempo di una nuova rinascita, di un nuovo inizio. Per questo, la natura è anche maestra di pazienza. Ogni fine presuppone un nuovo inizio, niente muore per davvero. Nel momento presente però l’unica cosa che sappiamo è ciò che in quest’istante è manifesto, dentro e fuori di noi.
Serenità e fiducia nel divenire, consapevolezza e attenzione verso ciò che nell’istante presente vediamo dispiegarsi: queste, le sole certezze dell’essere umano presente a sé stesso.
Se c’è quiete non può esserci paura. Serenità e paura si escludono a vicenda. Se la paura riesce a farsi largo significa che, quanto meno in quell’istante presente, non c’è uno stato di quiete interiore. Per poter arrivare a comprendere tutto ciò, e magari a sperimentare il Wabi-Sabi, basterebbe anche un solo istante di veglia.
photo credits: 4travel.jp
«Kata–Katachi»: diligenti come la natura
Accettare il divenire naturale, lasciar fluire, non significa divenire passivi, lasciarsi andare al «disordine». La diligente esecuzione dei gesti della Cerimonia del tè, in cui il Wabi-Sabi affonda le sue radici, ci indica proprio questo. Come dicevamo nell’articolo ad esso dedicato, il principio del kata-katachi – comune a tutte le discipline giapponesi – mira al raggiungimento dell’armonia con sé stessi e il mondo circostante. Come? Attraverso una costante, diligente ripetizione di determinati gesti volta a far nostri questi stessi gesti, a farceli venire naturali.
Questa è la logica essenziale giapponese: osservare-applicare, semplicemente; ma applicare diligentemente. Ed è un po’ quello che accade con l’osservazione della natura stessa. Osservare il comportamento della natura e replicarlo, potrebbe dirsi la primissima grande applicazione di questo principio da parate del popolo giapponese.
Questo ci suggerisce, come si diceva all’inizio, che non basterebbe fermarsi ad accettare l’Imperfezione: ma che ogni cosa dovrebbe assolvere al proprio compito o alla propria funzione all’interno del disegno dell’Imperfezione. Per gli esseri umani, si tratta di agire nei loro ruoli portando a termine ogni cosa nella più alta versione possibile. In sostanza, dare il meglio di sé.
E se in tutto ciò qualche «difetto» vuole manifestarsi, a quel punto, accoglierl, proprio perché la propria parte la si è già fatta. Cogliere quindi la bellezza di quel difetto, in verità così perfetto nella sua imperfezione, così completo nella sua incompletezza, proprio per essere emerso a quel modo.
Così saremmo più simili alla natura…danzando con essa ai suoi ritmi. È in una simile cornice che il Wabi-Sabi potrebbe sopraggiungere. Potrei sbagliarmi…ma sembrerebbe trattarsi di un momento fra un ciclo e l’altro, un istante di silenzio fra il ciclo in conclusione e quello a seguire. Uno spazio vuoto dove entrambi i tempi non esistono ma, allo stesso tempo, ne sono collegati. Come si trattasse di un sottilissimo, filo invisibile, visibile solo in quel frangente. È in quell’istante di stasi, dove i confini fra esterno ed interno vengono a mancare, che il Wabi-Sabi potrebbe manifestarsi.
photo credits: Film The Last Samurai
L’Imperfezione come «tocco del divino»
La percezione del Wabi Sabi parrebbe quindi emergere dove sia stato raggiunto un grado di consapevolezza tale per cui vi è un distacco dall’idea di perfezione assoluta. Si comprende il senso dell’imperfezione e della transitorietà delle cose e se ne coglie così la bellezza spontanea e genuina. La si accoglie come valore aggiunto – tocco divino – alla propria creazione: è una bellezza equilibrata.
Saper riconoscere che l’Imperfezione è il tocco del divino implica il capire quando è il momento di mollare il proprio «pennello». Occorre saper mollare la presa quando tutto ciò che doveva essere fatto è stato portato a termine e le mosse fattibili tutte esaurite. Incaponirsi dove il nostro compito è terminato o cercare di intervenire sul «tocco del divino» – non riconoscendolo come tale – è certamente un punto dove Wabi Sabi non può emergere. Poiché manca il suo terreno fertile di base: la quiete.
photo credits: youtube.com
Wabi-Sabi, le origini: la visione Buddista
Il principio che fa da premessa all’esperienza Wabi Sabi va ricercato nella filosofia buddista dei Tre Segni dell’Esistenza, per cui tutto ciò che si manifesta in questa realtà è soggetto a tre caratteristiche:
● Impermanenza
Tutto ciò che è, fuori e dentro di noi, è destinato presto o tardi a lasciare spazio a qualcosa di nuovo. È un costante divenire ciclico in cui tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine. Inoltre l’esistenza stessa della materia è regolata dalla dualità: ogni cosa manifesta necessariamente il suo contrario. Questo perché l’Uno, nella materia, deve per forza scindersi in due parti. Se un elemento di un binomio (inizio-fine, luce-buio, positivo-negativo, maschile-femminile, nascita-morte…) viene meno, si genera squilibrio…poiché si tratta di due aspetti di una stessa cosa. Potrà piacere o no, ma così funziona la materia. Pertanto – fintanto che vi si è dentro– non è possibile sfuggire a tali leggi.
● Insostanzialità
Nulla è casuale: ogni evento deriva dal concatenarsi di n fattori anche molto lontani nel tempo e nello spazio. Pertanto nulla esiste, di per sé, come manifestazione indipendente da ciò che l’ha originato. Esiste dunque un legame fra tutte le cose del mondo, così apparentemente slegate le une dalle altre, incluso il nostro Sé umano. Partecipando alla natura mutevole della realtà esso non può che essere fragile, incompleto: perciò si pone molto l’accento sulla disidentificazione da quella parte di sé stessi. L’Ego non armonizzato tende a trarre linfa dalla sola realtà materiale facendoci rimanere intrappolati nell’illusione temporale di passato e futuro. Consentendo così anche ad altri tipi di illusione di farsi largo. Per questo il momento presente, l’attenzione al qui e ora, è essenziale.
● Sofferenza
Nulla al mondo potrà mai generare soddisfazione duratura. Nel momento stesso in cui vi è felicità, in essa vi è inevitabilmente scritta la sua fine (è la legge della polarità). Ed infatti il vero obbiettivo esistenziale da prefiggersi è la Serenità, non la felicità. Solo la Serenità può garantire benessere costante, anche in momenti bui, poiché essa nasce dalla Presenza. La felicità, per quanto bella, è tuttavia figlia delle emozioni. Quindi, della dualità.
Accogliere tale visione delle cose consente di acquisire un maggiore realismo. Prendere coscienza di come stanno le cose, accettare, adattarsi e così capire come muoversi nella realtà. Sviluppare una sana, lucida, visione della realtà che ci circonda è essenziale per muoversi in questo mondo.
photo credits: youtube.com
Filosofia Zen, terreno fertile per il Wabi-Sabi
Eliminare la radice della sofferenza è dunque possibile: la chiave sta nell’adattarsi alla natura della realtà, così com’è. La sofferenza si origina proprio da una negazione della realtà: dalla resistenza, dall’attaccamento. Ovvero dal controllo, dettato dalla paura, che non permette alle cose di fluire. Ma da cosa nasce questa paura? Probabilmente, dall’errata convinzione che l’Imperfezione ci porti in qualche modo alla rovina esistenziale. Come se ogni volta, rischiassimo di morire.
Invece non ha senso resistere a qualcosa che è più grande di noi, anzi si fa peggio. È volersi intestardire a navigare contro corrente. Tale è la natura fisiologica della realtà che ci circonda: non è meglio «farsela amica» e trovare il modo di collaborarci?
Ecco dunque i «tips» della filosofia Zen per una vita più equilibrata e serena:
● Perfezione non significa assenza di difetto
L’imperfezione di qualcosa non lo qualifica come negativo. La percezione di ciò che è «difetto» o «brutto» è oltretutto relativa. Varia da civiltà a civiltà, da persona a persona…perfino dentro di una stessa persona. E se per ipotesi fossero legge fissa, ci sarebbe comunque una precisa ragion d’essere, no? Al fine di interiorizzare questa visione però è essenziale acquisire un importante stato mentale: il non-giudizio.
● Accogli Transitorietà e Imperfezione
Perché rifiutare qualcosa che è parte strutturale della realtà in cui viviamo? È così e basta. È più saggio accettare quanto non è in nostro potere. E conservare comunque un cuore aperto! Poiché la medesima Impermanenza, che tanto temiamo, spesso ci riserva piacevoli sorprese ed opportunità.
● Rimuovi tutto ciò che non serve
Liberarsi dalle cose innecessarie in favore di un contatto più diretto e profondo con le cose della nostra vita, a partire dalle più «insignificanti». La loro essenza, il loro senso, la loro bellezza…diventano così percepibili. Alleggerirsi dalle inutili sovrastrutture con cui spesso tendiamo ad appesantire tutto e che ci distolgono dalla semplicità– che, da sola, basterebbe a far scorrere le cose in modo anche più efficiente.
● Vivi il presente, distaccati dal risultato
Non esiste il momento perfetto. Rincorrere un obbiettivo in un immaginario punto del futuro è una trappola: il futuro, di per sé, semplicemente non esiste. Il «non averne mai abbastanza» segnala poi l’insorgere della seconda trappola. Si diventa il cosiddetto criceto nella ruota. Ciò non sta a significare che non bisogna avere obbiettivi: significa semplicemente porsi i dovuti obbiettivi ma, lasciarli andare, senza fissarvisi ossessivamente perdendo di vista il presente.
Come il Wabi-Sabi si radica nello spirito giapponese
Non possiamo lasciarci però, vista la comune origine col Wabi-Sabi, senza ricordare il Chadō. In precedenza abbiamo già avuto modo di addentrarci nella Via del Tè. Nel nostro articolo dedicato abbiamo visto come la Cerimonia del tè si sia gradualmente evoluta dalla più opulenta forma Shoin alla Wabi-cha (Cha 茶 significa tè). A capo di questa «Wabizzazione», una linea diretta di maestri zen. Murata Jukō e Sen no Rikyū in particolare, sono tutt’oggi considerati i padri del Cha no Yu. Oltre a loro ci sarà però un ulteriore personaggio ad ancorare il Wabi-Sabi in un altro importante ambito del panorama culturale nipponico.
Eccovi allora un’istantanea dell’evoluzione storica del Wabi-Sabi:
● XII secolo
Tutto ha inizio da Myōan Eisai, monaco buddista di scuola tendai. Eisai è colui che porta dalla Cina la dottrina Zen (Rinzai) e con essa l’uso del tè, aprendo così la strada al processo di sviluppo della Cerimonia del tè.
● XIV secolo
I termini Wabi e Sabi subiscono quella metamorfosi semantica di cui si parlava all’inizio. Il loro significato inizia a sovrapporsi e si comincia man mano ad usarli assieme. Connoteranno ad esempio gli oggetti rustici che prenderanno sempre più il posto dei lussuosi oggetti cinesi tipici dell’iniziale Shoin-cha.
● XV secolo
Fa la sua comparsa Murata Jukō. Con il benestare dello Shōgun Ashikaga Yoshimasa, riesce a introdurre lo stile Wabi nella pratica del tè che si diffonde così nel paese. Jukō agisce ad esempio riducendo il numero degli utensili del rito, portando così maggiormente l’attenzione su di essi (ricordate, togliere quanto innecessario).
● XVI secolo
È la volta di Takeno Jōō, allievo di Jukō, che si concentra invece sulla semplificazione degli ambienti del rito da tè. Introduce ad esempio materiali più modesti come argilla, bambù e rimuove il legno da alcune parti. In antitesi allo stile Shoin inoltre, porta l’utilizzo degli oggetti autoctoni al pari di quelli di origine cinese.
L’allievo di Jōō, Sen no Rikyū, il più rivoluzionario di tutti, completerà l’opera codificando la Cerimonia una volta per tutte.
● XVII secolo
Matsuo Bashō, massimo poeta giapponese, trasporrà il Wabi-Sabi in poesia. Durante il suo lungo peregrinare in solitudine nella natura del Giappone riuscirà, proprio come un pittore con la sua tela, a catturarne le immagini. La riuscita dei suoi componimenti Haiku così essenziali, silenziosi e vuoti, sta proprio nell’aver usato le parole per dipingere le situazioni e i paesaggi che incontrava piuttosto che descriverli.
photo credits: angelotrapani.wordpress.com, allpainters.org
L’equilibrio è la matrice di tutto
Giunti al termine di questo nostro viaggio nei «paesaggi» del Wabi-Sabi abbiamo compreso che la condizione alla base di tutto è la quiete interiore. Dobbiamo fare silenzio dentro di noi e mettere a tacere tutto quanto faccia casino al nostro interno. Occorre in altre parole (ri)stabilire l’equilibrio. Ordine, equilibrio…se ci fate caso, si torna sempre lì. Il troppo di qualsiasi cosa genera squilibrio.
Il segreto per farsi amica questa realtà risiede invece nell’imparare a muoversi nella dualità, nel saper governare gli estremi.
Abbiamo compreso inoltre che lasciar fluire la realtà include comunque il nostro raggio d’azione. Per anche noi, esattamente come la natura, adempiere alla nostra funzione nella più alta forma di espressione possibile. Non va invece confuso con un passivo lasciarsi travolgere dagli eventi che, al contrario, è squilibrio in tutto e per tutto.
Passività e controllo, due facce della stessa medaglia.
L’errore di noi occidentali ad esempio, più che nella nostra idea di bellezza di per sé, sta nel nostro approccio negativo verso il Difetto. Da sempre, culturalmente riconosciamo la bellezza nella perfezione senza difetti. Il che, di per sé, non è sbagliato: indica che abbiamo ben compreso la natura metafisica del divino che, in quanto tale, non ha difetti.
Tuttavia non abbiamo calcolato una cosa: quella perfezione «originaria» non è di questo mondo! E così, nella nostra ricerca del senso della vita, tentiamo a tutti i costi di portare, qui, quel tipo di perfezione. Non comprendendo, che questa parte di Universo è progettata per essere imperfetta. E che il divino, da queste parti, si manifesta anche attraverso il difetto (anzi, spesso l’Imperfezione ne è la manifestazione più diretta). Il nostro equivoco sta tutto lì.
Imperfetto vuol dire semplicemente imperfetto. Abbandoniamo il giudizio perché ci preclude di vedere tutto uno spettro di possibilità, facendoci rimanere confinati in un’angusta fettina di realtà.
Difettoso, amici 100% occidentali, non vuol dire male assoluto: lasciamo cadere quest’illusione. Se di male si può parlare, allora questo andrebbe piuttosto ricercato nello squilibrio. Poiché è lo squilibrio che ci impedisce di essere quieti, lucidi e presenti a noi stessi.
Ed è solo nella quiete che, quando meno ce lo aspettiamo, in un attimo di vuoto possiamo tutt’un tratto ritrovarci, dal punto vista del divino. Da lì, «dall’alto», magicamente, riusciremo a scorgere la danza della dualità e lì la nostra natura umana tornerà malinconica a ricordarci come, per il momento, facciamo parte di quella danza.
photo credits: wakuwakumedia.com
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